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La requisitoria al processo Mannino

  • saradonatelli0920
  • 10 ago 2015
  • Tempo di lettura: 28 min

IMPUTATO:

Calogero Mannino


PROCESSO:

Rito abbreviato che vede Mannino alla sbarra nello stralcio del procedimento sulla trattativa Stato-mafia.


GUP:

Marina Petruzzella


IMPIANTO ACCUSATORIO:

Mannino avrebbe esercitato vere e proprie “pressioni” politiche ai fini dell’alleggerimento del regime carcerario del 41 bis per numerosi mafiosi a fronte dei timori per la propria incolumità sorti prima e dopo l’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima.





REQUISITORIA DEI PM ROBERTO TARTAGLIA E VITTORIO TERESI


INTRODUZIONE

Il PM Roberto Tartaglia esordisce sottolineando che “una parte importante delle istituzioni, per esigenze egoistiche e individuali, contrabbandate da “ragioni di stato” ha di fatto accettato “il dialogo e il compromesso con l’organizzazione mafiosa” realizzando così “i desiderata di Cosa Nostra”. Per Tartaglia è evidente che non sempre lo Stato si è trovato “unito” per combattere la mafia. Ma perché Mannino avrebbe avviato la trattativa con la mafia? Per semplificare si potrebbe rispondere: per salvarsi la vita. Nel mese di febbraio ’92 (dopo il verdetto della Cassazione sul maxi processo) Mannino riceve a casa una corona di crisantemi. Pur avendo capito perfettamente quale messaggio di morte rappresentasse, si guarda bene dal denunciarlo. Qualche giorno dopo, però, confida al maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli: “Ora uccidono me o Lima”. E così accade. Il 12 marzo Salvo Lima viene assassinato a Mondello. Tre settimane dopo, il 4 aprile, anche Guazzelli viene barbaramente ucciso. L’ex ministro democristiano vive nel terrore. Per gli inquirenti l’assassinio del maresciallo Guazzelli (mai del tutto chiarito) sarebbe stato deciso, dopo l’omicidio Lima, per lanciare un ulteriore messaggio di minaccia proprio a Mannino. Il sottoufficiale dei carabinieri aveva un legame diretto con l’ex deputato democristiano ed era diventato una sorta di trade-union tra lo stesso Mannino e l’ex capo del Ros Antonio Subranni. Mannino, dopo l’omicidio di Guazzelli, incontra più volte a Roma il gen. Subranni, spesso in quegli incontri c’è anche l’ex numero 3 del Sisde Bruno Contrada. Nella sua requisitoria Tartaglia parla dei soggetti che hanno svolto altre funzioni: “gli intermediari di quelle minacce e motore di quelle iniziative”. Secondo il pubblico ministero le condotte di Mannino e degli altri uomini dello Stato coinvolti “hanno oggettivamente portato alla realizzazione degli obiettivi” della mafia, contribuendo così ad “orientare la strategia stragista di Cosa Nostra nel 1992 e nel 1993”.


41 BIS

Seguendo l’ipotesi accusatoria dei magistrati palermitani, dopo le minacce ricevute da Mannino, Mori avrebbe contattato Vito Ciancimino per avviare una trattativa che vedrebbe tra i principali protagonisti proprio Calogero Mannino quale autore di “pressioni per un ammorbidimento del 41 bis”. Nei primi mesi del ’93 uno scambio epistolare tra l’amministrazione penitenziaria e il Ministero dell’Interno ci rivela che in quel periodo c’era una grande fibrillazione attorno alla possibilità di prorogare o meno i decreti di 41bis a scadenza annuale. Questa discussione si protrae nonostante le bombe di Roma, Firenze e Milano e si concretizza nel mese di novembre di quello stesso anno con la mancata proroga del 41bis per oltre 300 boss. Diversi anni dopo l’ex Guardasigilli dell’epoca, Giovanni Conso, dichiara di aver agito “in solitudine, senza informare nessuno”. Le testimonianze e la documentazione del biennio stragista lo smentiscono decisamente. Tra queste carte basta riprendere la nota del Dap del 26 giugno 1993 con la quale viene prevista una riduzione dei provvedimenti applicativi del 41bis in relazione proprio a quegli oltre 300 decreti emessi nel novembre del ‘92. Quel documento, così come scritto, è mirato a rappresentare un vero e proprio “segnale di distensione” a Cosa Nostra.






RAPPORTO DEL ROS DENOMINATO “MAFIA E APPALTI”

Il dott. Tartaglia è andato a ripescare una relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Giancarlo Caselli datata 5 giugno ’98 dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”. Il PM evidenzia che una copia di questa relazione è stata consegnata personalmente da Caselli alla Commissione parlamentare antimafia nel corso dell’audizione del 3 febbraio 1999. Attingendo quindi a questa relazione vengono indicate tutte le “clamorose ed agghiaccianti anomalie” che hanno contrassegnato la questione dell’informativa mafia-appalti. Si inizia dall’anomalia della prima versione del rapporto del Ros, depositata il 20 febbraio 1991, priva del nome di Mannino o di altri politici. Giovanni Falcone la riceve in quel giorno ma materialmente non se ne può occupare perché già designato come Direttore degli affari penali al Ministero e quindi la consegna al Procuratore Pietro Giammanco per la riassegnazione. Il 25 giugno di quello stesso anno la Procura di Palermo, sulla base di quella informativa e di ulteriori approfondimenti investigativi, chiede l’arresto di sette dei soggetti denunciati nel rapporto: Siino, Li Pera, Farinella, Falletta, Morici, Cascio e Buscemi. Per gli altri indagati il 13 luglio del ’92 viene chiesta l’archiviazione. Non ci sono politici tra le richieste di custodia cautelare, né tanto meno tra le richieste di archiviazione. Subito dopo l’istanza di archiviazione scoppia una violentissima polemica mediatica contro la Procura di Palermo “rea” di aver fatto sparire la posizione di Mannino e di altri politici importanti. Di fatto sui giornali vengono pubblicati stralci di intercettazioni, alcuni anche riguardanti Mannino. Una fuga di notizie, quindi, si verifica realmente, ma del tutto misteriosa, in quanto riguardava atti investigativi che in quel momento la Procura di Palermo non aveva. Chi aveva fatto uscire quei brogliacci? Il 5 settembre del ’92, un anno e mezzo dopo il deposito della prima informativa, il Ros di Subranni “costretto da una non prevista campagna di stampa che rischiava di far scoppiare lo scandalo” si decide a depositare una seconda informativa mafia-appalti che contiene espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi. “Ma questa seconda informativa, finalmente completa – sottolinea Tartaglia - presentata 19 mesi dopo la prima, riporta incredibilmente acquisizioni investigative su Mannino che già c’erano ed erano state elaborate molto prima della informativa di febbraio ‘91, e che però erano state inspiegabilmente “escluse, stralciate, nascoste” dal rapporto mafia-appalti. Per approfondire ogni passaggio Tartaglia rilegge ampi stralci della relazione di Caselli all’Antimafia. “Le indagini condotte dai magistrati della Procura di Palermo negli anni 1991-1992 – scriveva l’allora Procuratore Capo – furono condizionate da talune anomalie, ed in particolare si svolsero senza disporre delle integrali ed effettive risultanze investigative che pure il Ros aveva già acquisito fin dalla prima metà dell’anno 1990”. Il PM Tartaglia spiega che alcuni nomi di uomini politici (Lima, Nicolosi e Mannino) venivano per la prima volta a conoscenza della Procura della Repubblica di Palermo solamente il 5 settembre 1992, quando con una informativa a firma del capitano del Ros Giuseppe De Donno “venivano per la prima volta riferiti l'esistenza ed il contenuto di intercettazioni telefoniche eseguite e in gran parte già trascritte nel 1990 e nel 1991, recanti la citazione di personalità politiche nazionali”. Il PM si chiede chi potesse avere “la possibilità e l'autorità” di eliminare dall'informativa le fonti di prova riguardanti i politici Lima, Nicolosi, Mannino, prima che venisse consegnata alla Procura di Palermo. Le omissioni effettuate nell’interesse di Mannino e Nicolosi sono state quindi “frutto di preliminari intese con gli stessi Nicolosi e Mannino, che avevano contattato i Carabinieri?”, si domanda ancora il PM. “Chi, nel Ros, poteva avere la forza di epurare quella informativa e di proteggere Mannino? Chi, se non il suo Comandante Subranni?”. “Questa copertura sarà stata determinata da contatti occulti con Mannino, che aveva contattato i Carabinieri?”, chiede ad alta voce il PM. Seguendo il filo logico del ragionamento del PM la risposta non può che essere affermativa. Nella requisitoria Tartaglia spiega come questa arma difensiva si sia convertita in un effettivo elemento di “prova ulteriore” relativo alla “stabilità” ed alla “illiceità” del rapporto tra il Ros e Mannino. “Oggi – sottolinea Tartaglia – sappiamo che Subranni e il Ros non hanno denunciato Mannino all’Autorità giudiziaria, ma che anzi, imbattutisi nella posizione di Mannino nel corso della loro indagine, con delle intercettazioni telefoniche, hanno commesso gravissimi reati di falso e favoreggiamento e lo hanno coperto dalle indagini della Procura di Palermo per 19 mesi e cioè fino a quando, dopo le fughe di notizie sull’informativa autentica finita sui giornali, non ne hanno potuto fare a meno e l’hanno depositata in versione ‘piena’ per evitare di essere arrestati!”.


INTERVISTA A ANTONIO PADELLARO

La requisitoria del PM Roberto Tartaglia ripercorre in maniera esaustiva diversi episodi inquietanti che ruotano attorno alla figura di Calogero Mannino. Persino una sua mancata intervista nel luglio del ’92, di cui non restano che pochi appunti scritti a mano da Antonio Padellaro, quando ancora lavorava all’Espresso, è utile a focalizzare la caratura dell’odierno imputato. “Per il maxiprocesso fu raggiunta una specie di accordo con il potere politico. Voi – disse Cosa Nostra – ingabbiate la mafia perdente e alcuni marginali della mafia vincente. Ma l’accordo è che alla fine di questo iter c’è la Cassazione, che ci rimetterà in libertà. Noi nel frattempo ce ne restiamo buoni e calmi continuando a fare i nostri affari. Ma il Governo non ha rispettato i patti e Andreotti ha fatto approvare una serie di leggi repressive”. Queste erano le dichiarazioni di Mannino riportate da Padellaro sul suo taccuino dopo essere uscito dall’incontro con l’allora Ministro per il Mezzogiorno. Padellaro aveva raccontato agli inquirenti di essersi trovato di fronte ad un uomo letteralmente terrorizzato che si era lasciato andare ad esternazioni alquanto personali: “ho orrore di restare in questa condizione di condannato a morte. Sento che sto per perdere la ragione. Maledico il giorno in cui ho iniziato a fare politica”. In merito a quello che Mannino definisce accordo il PM è decisamente netto: “o Mannino ha saputo di questo accordo da Cosa Nostra, oppure lo ha fatto quell’accordo, da politico”.


OMICIDIO GUAZZELLI

Ma chi intende colpire realmente Cosa Nostra il 4 aprile 1992 quando uccide il maresciallo Giuliano Guazzelli? Per Tartaglia con quell’omicidio Cosa Nostra ha voluto uccidere “l’uomo di azione di Calogero Mannino, l’uomo-cerniera tra Mannino e Subranni”, quello stesso uomo che nelle settimane antecedenti al suo omicidio “era stato incaricato da Mannino e Subranni di occuparsi anche della mediazione tra i due per la soluzione del delicatissimo problema del pericolo di morte per Mannino”. Secondo il magistrato si tratta di un segnale che “colpisce Guazzelli ed arriva diretto a Mannino”, è del tutto “chiaro” in quanto rappresenta “l’acme di quella escalation di intimidazioni e di pressione psicologica che Cosa Nostra sta portando avanti nei confronti di Mannino”. Nella sua requisitoria il PM spiega che quell’omicidio dimostra al Ros e a Mannino che questa volta il problema “è serissimo” e quindi “comporta la necessità di quella interlocuzione piena ed occulta con i vertici di Cosa Nostra che infatti, di lì a pochissimo, gli uomini di Subranni, Mori e De Donno, avvieranno con Vito Ciancimino”.


FALANGE ARMATA

“Tenendo fede all’annuncio fatto, il comitato politico della Falange Armata, in piena autorità e perfetta convergenza, si assume la paternità politica e la responsabilità morale dell’azione condotta ancora in Sicilia contro il maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli”. Le stesse identiche parole usate per l’omicidio Lima meno di un mese prima vengono pronunciate da un ignoto interlocutore che telefona all’Ansa di Bari alle 11:25 del 5 aprile 1992. Ecco che torna quella sigla già utilizzata nel biennio stragista ‘92/’93. “La finalità non era quella di depistare – spiega Roberto Tartaglia - ma quella di destabilizzare”. C’è da dire che nel decreto di rinvio a giudizio del processo madre sulla trattativa Stato-mafia lo stesso gip Piergiorgio Morosini aveva circoscritto la questione legata alla Falange Armata. “Dall’esame delle fonti indicate – aveva evidenziato Morosini – si ricavano elementi a sostegno di una ipotesi di esistenza di un progetto eversivo dell’ordine costituzionale, da perseguire attraverso una serie di attentati aventi per obiettivo vittime innocenti e alte cariche dello Stato, rivendicati dalla Falange Armata e compiuti con l’utilizzo di materiale bellico proveniente dai paesi dell’est dell’Europa”. Il Gip ribadiva: “nel perseguimento di questo progetto Cosa Nostra sarebbe alleata con consorterie di ‘diversa estrazione’, non solo di matrice mafiosa (in particolare sul versante catanese, calabrese e messinese). E nelle intese per dare forma a tale progetto sarebbero coinvolti ‘uomini cerniera’ tra crimine organizzato, eversione nera, ambienti deviati dei servizi di sicurezza e della massoneria”. Dal canto suo il pentito Filippo Malvagna aveva raccontato delle riunioni preparatorie agli attentati del ’92 tenutesi a Enna alcuni mesi prima nelle quali Totò Riina aveva detto che “si doveva fare un po’ di ‘confusione’, non si doveva capire da dove provenisse tutto questo terremoto”. Malvagna aveva aggiunto quindi che Riina “aveva detto di rivendicare qualsiasi cosa dicendo che chi metteva in atto queste cose faceva parte della ‘Falange Armata’”.


CORVO DUE

Nella sua esposizione Tartaglia torna sul mistero del “Corvo2”. Otto pagine anonime che, così come aveva ricordato nelle prime udienze “descrivevano complessivamente l’instaurazione di un canale di comunicazione, in seguito ed a causa dell’omicidio di Salvo Lima, tra esponenti politici, tra cui Mannino, e i vertici di Cosa Nostra”. Quei fogli erano stati inoltrati a 39 destinatari (tra cui giornalisti, magistrati e altre figure istituzionali), di fatto l’anonimo era stato scritto a cavallo tra il 23 maggio ‘92 e il 19 luglio del 1992 ed era stato indirizzato, tra gli altri, anche a Paolo Borsellino. Lo stesso Borsellino si sarebbe successivamente occupato di quell’anonimo. “In tanti hanno temuto che attraverso le indagini sul Corvo 2 Borsellino potesse arrivare concretamente ad indagare su quella interlocuzione (tra Stato e mafia) appena iniziata”, sottolinea Tartaglia. Il PM unisce fatti e circostanze collegandoli a persone specifiche. Il quadro che emerge è del tutto coerente. Così come riportato dall’ex tenente dei carabinieri che aveva collaborato con Paolo Borsellino, Carmelo Canale, l’incontro del 25 giugno 1992 tra Mori, De Donno e Borsellino non era finalizzato alla discussione del rapporto mafia e appalti, ma bensì alla trattazione del “Corvo 2”. Il magistrato evidenzia le forti preoccupazioni di Subranni: “prima, i carabinieri fecero filtrare una notizia all'Ansa, secondo cui quell'anonimo era carta straccia. Poi, dopo la morte di Borsellino, Subranni chiese addirittura alla procura di archiviare l’inchiesta sull'anonimo”. Tra coloro che si preoccupano di quell’esposto anonimo ci sono anche l’agente dei Servizi segreti Angelo Sinesio che chiede ossessivamente al PM Alessandra Camassa quali fossero le ultime indagini di Borsellino e l’ex numero 3 del Sisde Bruno Contrada che più volte si incontra al Ministero con Subranni e Mannino. “Non può davvero sfuggire il motivo per cui Contrada, indicato nelle agende come presente ai primi incontri Mannino-Subranni, fosse fino a tal punto interessato a sapere a quali risultati su Mannino e sul Corvo 2 fosse arrivato con la sua indagine Paolo Borsellino prima di morire”, sottolinea Tartaglia. Per poi aggiungere amaramente “Sinesio non fu l’unico in quel momento storico a fare il ‘cane da guardia’ di Mannino per conto di Contrada, e cioè ad informarsi con tanta insistenza di eventuali indagini dell’autorità giudiziaria nei confronti di Mannino”.



L’ALTRA TRATTATIVA

“In quegli anni si è passati all’evoluzione di un secondo piano di trattative che è passato come trattativa delle opere d’arte. Un piano che presenta dei profili di interferenza con la trattativa di Mori. La trattativa era un discorso politico e quella sulle opere d’arte ci dice perché”. Roberto Tartaglia, durante la sua requisitoria ha affrontato anche il capitolo degli incontri tra il luogotenente dei carabinieri Roberto Tempesta e la “primula nera” Paolo Bellini, figura misteriosa degli anni '80-'90. “Bellini – ha detto Tartaglia - arrivò ad offrire al Ros di Subranni, Mori e De Donno la possibilità di infiltrarsi in Cosa nostra e far finire le stragi. Bellini ha anche un passato di latitante. Durante la carcerazione del ’91 fu detenuto al carcere di Sciacca con il nome di Roberto Da Silva e si trova nella cella del boss Antonino Gioè. Tempesta ha lavorato in precedenza con Mori e ci parla degli incontri con Bellini che iniziano nel marzo del ’92. Tempesta ci dice che il 12 agosto del ’92 incontra Bellini e manifesta uno sdegno per la strage di via D’Amelio dicendo questi vanno fermati”. E' Bellini a parlare di quello che sarebbe accaduto da lì a poco in riferimento al progetto di attentati ai beni artistici da parte di Cosa nostra e a fare l’esempio della torre di Pisa. “Bellini – prosegue Tartaglia - prospetta a Tempesta una concreta possibilità di intervento 'ti metto a disposizione il mio canale con Gioè, mi infiltro dentro Cosa nostra così da sventare gli attentati che si faranno in futuro'”. In cambio del recupero di opere d'arte i capimafia contattati da Bellini presentano un elenco di 5 nomi di boss di primo piano tra cui Pippo Calò e Bernardo Brusca e ciò venne riferito da Tempesta a Mori. “Tempesta consegna a Mori il numero di Bellini – aggiunge Tartaglia nella sua ricostruzione - dice di aver riferito a Mori che Bellini gli aveva detto che si stava per colpire i monumenti. La reazione di Mori descritta da Tempesta è lucida, prende il biglietto dice: 'a questo lo dobbiamo contattare subito, gli mando Ultimo'. Nella realtà però accade il contrario. Mori non contatterà mai direttamente Bellini neanche tramite Ultimo. Tempesta dice di aver richiamato Mori per sapere come era andata la cosa e Mori gli dice 'hai ragione ora mando Ultimo' e invece non manda nessuno. Questa proposta di infiltrazione viene fatta cadere senza neanche un tentativo di contatto”. Il PM si è posto alcuni interrogativi, ovvero, “se il Ros di Subranni in quegli stessi mesi cercava un dialogo con Cosa nostra per evitare altre stragi perché non è stata nemmeno sondata la praticabilità di Paolo Bellini? Se le informazioni di Bellini sugli attentati ai monumenti furono ritenute inattendibili perché non venne cambiato atteggiamento dopo le stragi del ’93? Perché neanche un pedinamento per vedere quando si incontrava con i latitanti? Si profila una unica possibile risposta: la trattativa in corso con Vito Ciancimino seguiva binari ben più articolati e politici di quelli della polizia giudiziaria di cui parlano Mori e De Donno, quindi la trattativa di Vito Ciancimino aveva mandanti politici”. Secondo la ricostruzione della Procura quindi quella possibilità di Bellini di infiltrarsi in Cosa nostra “era un tentativo visto come pericoloso perché faceva saltare il tavolo di quella negoziazione”.


PAPELLO

Durante la propria requisitoria il PM Tartaglia si è soffermato su alcuni documenti presentati da Massimo Ciancimino, in particolare sul “papello” consegnato all'autorità giudiziaria il 14-10-2009. “I documenti consegnati – ha detto il PM - li leggiamo alla luce dei risultati pervenuti dalla polizia scientifica. Il papello è l’unico documento in fotocopia che contiene una serie di indicazioni: maxiprocesso, riforma legge sui pentiti, benefici ai dissociati, chiusura supercarcere ed altro ancora. Sull’angolo in alto risulta fotocopiato anche un post-it che presenta un’annotazione di Vito Ciancimino con scritto “consegnato a Mario Mori del Ros”. Ad oggi non si sa chi ha scritto quell'elenco anche se tutti parlano di una dettatura di Riina. Non è frutto di contraffazione e si tratta di una fotocopia di un documento originale. Dal toner e dalla carta usati si può dire che c'è una elevata probabilità che risalga al '92 e la certezza che non è stato confezionato da Massimo Ciancimino a uso e consumo delle sue dichiarazioni alla Procura”. Del papello parlarono numerosi pentiti, in primis Giovanni Brusca che “ha parlato dell’iniziativa di esponenti delle istituzioni e che quelle richieste a suon di bombe erano la strategia vincente per Cosa nostra”. Inoltre Brusca “nel periodo tra Capaci e via D’Amelio aveva incontrato Riina che con soddisfazione gli aveva detto in riferimento ad esponenti dello Stato 'si sono fatti sotto' e 'gli aveva presentato un papello così'” e lo stesso Riina “'gli aveva fatto desistere dal seguire le abitudini di Mannino” in riferimento al progetto di attentato nei confronti dell'ex ministro. Altra testimonianza importante è quella di Pino Lipari, uno dei più stretti collaboratori di Riina e Provenzano, un tempo era soprannominato il “ministro dei Lavori pubblici di Provenzano”, oggi è un boss che ha fatto alcune dichiarazioni ai magistrati dopo il suo arresto. “Ha spiegato di aver saputo del papello da Antonino Cinà, il medico di Riina, e poi anche dallo stesso Ciancimino, durante una visita nella sua casa romana”. Ciancimino spiegò a Lipari di aver consegnato l'elenco di richieste di Cosa nostra a un capitano dei carabinieri, Giuseppe De Donno. La stessa versione ha dato Massimo Ciancimino. I carabinieri sostengono invece di non avere mai ricevuto alcun “papello” da Ciancimino.



MANCINO

“La catena dei ricordi tardivi si interrompe con l'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino. E' una tomba della catena di recupero della memoria. E' il capolinea. Mancino dice di non sapere nulla di quella stagione, dice di non ricordare nulla”. Tartaglia ha ricordato anche le testimonianze di Liliana Ferraro che per la prima volta nel 2009 e nel 2010 “si ricorda che intorno al 20 giugno 1992 De Donno la andò a trovare al ministero e le racconta dei contatti già intrapresi con Vito Ciancimino. De Donno chiede alla Ferraro di informare Martelli per un sostegno politico. La Ferraro aggiunge che Martelli si era arrabbiato e dice di aver riferito questa circostanza al dott. Borsellino nel corso di un incontro all’aeroporto il 28 giugno ’92. La Ferraro racconta questa circostanza a Borsellino e la sua risposta è chiara 'non ti preoccupare ora ci penso io'. E' sempre in questi verbali che si fa riferimento alla richiesta di passaporto per Vito Ciancimino”. Anche Martelli è stato sentito nel merito ed ha ribadito “che la Ferraro gli riferì dei contatti tra Vito Ciancimino, Mori e De Donno. Disse anche che aveva valutato gravemente l’iniziativa del Ros che aveva invaso il campo della Dia e che di questo andò a riferire a Mancino. Martelli parla a Mancino di iniziative gravi del Ros. Mancino nega tutto quello che è possibile negare. Non ricorda nulla”. “Perché Mancino si è ostinato di negare tutto?” si è chiesto il PM in aula. Quindi ha ricordato che Mancino, il 12 dicembre 1992 “fece un'intervista al Giornale di Sicilia sostenendo che c'era una scissione in Cosa nostra, fra la corrente del violenti e quella dei morbidi, facenti capo a Provenzano”. Il magistrato ha poi definito quell'intervista come una sorta di “profezia” perché all'epoca nessuno sapeva di quella spaccatura. “Lo ha spiegato alla commissione parlamentare antimafia l'allora direttore della Dia Gianni De Gennaro, una vera autorità su questi argomenti. Ha spiegato che fra il 1992 e il 1993 Riina e Provenzano erano 'la stessa cosa', erano i 'corleonesi di Palermo' perché all'epoca 'non c'era alcuna minima percezione di differenti posizioni fra Provenzano e Riina'”. Secondo la ricostruzione della Procura “Nel 1992, solo Ciancimino sapeva di quella spaccatura, che aveva comunicato ai carabinieri del Ros”.



VIOLANTE

Il Pm Roberto Tartaglia nella requisitoria ha parlato delle dichiarazioni di Ciancimino nella ricostruzione della trattativa. “C'è un primo punto di contrasto con le ammissioni di Mori e De Donno in quanto spostano l’inizio di questi contatti dopo la strage di via d’Amelio. E non possiamo sapere se viene fatto per spostare la questione dell’accelerazione di quella strage”. Ciancimino dice che il padre “venne rassicurato da Mori e De Donno 'questa è una trattativa seria'. Inoltre parla di terminali all’interno del governo di terminali di quella interlocuzione. Per la prima volta viene fatto il nome di Mancino che in quelle settimane veniva promosso a ministro dell’Interno”. Ciancimino inoltre riferisce che “il padre non fu tranquillizzato della serietà di quella trattativa e aveva chiesto di fare di tutto per coinvolgere Violante perché ritenuto influente”. Ed è a questo punto che il PM Tartaglia ripercorre le dichiarazioni tardive di alcuni uomini delle istituzioni a proposito di quei mesi del 1992. Infatti soltanto dopo le dichiarazioni di Ciancimino, nel 2008, l'ex presidente della commissione antimafia Luciano Violante si è presentato alla procura di Palermo per riferire di un incontro con il generale Mori. L'ufficiale chiedeva un'audizione in Antimafia per Ciancimino. “Violante gli chiese se di quegli incontri con l'ex sindaco aveva parlato con l'autorità giudiziaria. Lui rispose in maniera netta: 'No, è stata tenuta all'oscuro, perché si tratta di un discorso politico'”. Ciò significa che “Neanche Violante all'epoca ritenne di dovere informare l'autorità giudiziaria. Un'azione che porta il PM a commentare: “Questi sono gli uomini che gestiscono le transizioni politiche. Non ci possono essere più dubbi, i contatti del Ros non furono di polizia giudiziaria, ma di matrice e ispirazione politica”.



MASSIMO CIANCIMINO

“Le sue dichiarazioni le consideriamo attendibili e utilizzabili in cui quelle dichiarazioni hanno ricevuto riscontri di prova. Valutazione fatta con particolare cautela. Non sono affatto pochi gli elementi che trovano riscontro”. Secondo la Procura Ciancimino è un “testimone privilegiato non fosse altro perché è il soggetto utilizzato da Mario Mori e Giuseppe De Donno per organizzare gli incontri con Vito Ciancimino. Massimo Ciancimino ha veicolato quegli incontri, in un rapporto di assoluta fiducia tra padre e figlio”. Aspetto questo che viene confermato dal fratello Giovanni, ma anche dai pentiti Giovanni Brusca ed Antonino Giuffré che parlando dello stretto rapporto tra i due dice che “Massimo Ciancimino faceva a volte le veci del padre”.

Sulla parziale attendibilità di Ciancimino junior l'accusa ha ricordato che è stata la “stessa Procura di Palermo a contestare l'accusa di calunnia - ha detto Tartaglia - una calunnia reale, per la vicenda di un documento del padre in cui compariva il nome De Gennaro. Documento, originariamente ritenuto autentico e successivamente si scoprì che il nome De Gennaro era stato trasposto al computer”. Il PM ha provato anche a dare una possibile chiave di lettura “di questa vicenda torbida, apparentemente senza motivo, che ha portato al fermo e all’imputazione di Massimo Ciancimino. La prima spiegazione è che Massimo Ciancimino sia stato tanto abile nella sua manipolazione quanto sbadato e leggero nel momento successivo presentando il documento successivo che è inutile. La seconda è quello che è stato riportato da lui stesso, cioè che è stato tratto in inganno da soggetti gravitanti nei servizi. La terza lettura è che questo episodio della consegna inutile lo si sia fatto nell'ambito di una manovra condotta dall’esterno per ridimensionare la portata delle sue dichiarazioni dato che su queste c’era una pressione mediatica notevole”. Pertanto per la Procura “La considerazione complessiva non ci consente di arrivare all’attendibilità generale sul soggetto e la valutazione va frazionata delle dichiarazioni, senza fare facili semplificazioni”.



INIZIATIVA DEL ROS

“L'iniziativa del Ros non fermò le stragi, ma la deviò dai suoi obiettivi. Non più i politici, ma i magistrati”. Durante la requisitoria il Tartaglia ha citato anche la sentenza dei giudici di Firenze, che stigmatizza la “trattativa” del Ros. Il PM ha definito questa azione degli ufficiali dell'arma come una iniziativa di “matrice politica occulta. Non fu di certo un'attività di polizia giudiziaria, non è neanche un'attività scriminata dal codice”. Nel corso delle indagini la procura ha notificato al Ros un ordine di acquisizione sui contatti Mori De Donno e Ciancimino ed il PM ha evidenziato come “Da tutte queste carte non risulta un atto relativo agli incontri dei due ufficiali con Ciancimino. La cosa stupisce perché il fascicolo su Ciancimino è cospicuo con tanto di tagli di giornali sui processi di Ciancimino. Dall’aprile del 92 all’arresto di Ciancimino non c’è nulla. Altro che attività di polizia giudiziaria”. E per supportare la propria ricostruzione Tartaglia ricorda le testimonianze dell'allora comandante generale dell'Arma dei carabinieri, Viesti, il quale disse “che né lui, né il comando generale avevano mai saputo nulla dell'iniziativa di Mori”, e dell'allora direttore della Dia, il generale dei carabinieri Taormina, ha confermato alla commissione antimafia “Neanche noi sapevamo nulla. Se ne avessimo avuto sentore, avremmo fatto il diavolo a quattro, denunciando pubblicamente”. Tartaglia ha anche evidenziato come “una relazione di Mori sui contatti con Ciancimino esiste. Ma è tardiva di 5 anni e mezzo. Risale ai tempi in cui Mori era stato sentito a Firenze (20 settembre ’97)”. Quindi “Da un lato i carabinieri violavano la legge non informando la Dia al tempo stesso parlavano attraverso Subranni con Mannino del corvo 2 di mafia appalti e andavano a chiedere una sponda politica attraverso contatti con l'allora ministro della Giustizia Martelli e con l'allora presidente della commissione antimafia Luciano Violante”.



LA TRATTATIVA

“La direzione reale dell'iniziativa del Ros con Vito Ciancimino è stata attività di polizia giudiziaria, seppur spregiudicata? Fu attività di intelligence? O fu attività con finalità politiche ma occulte?” “Oggi – ha detto Tartaglia davanti al giudice Marina Petruzzella - il generale Mori e il colonnello De Donno parlano di raffinata operazione di polizia giudiziaria a proposito dei colloqui con l'ex sindaco Vito Ciancimino, nel 1992. Fino a ieri pomeriggio, l'ha ribadito in un'intervista il capitano Ultimo. Ma nel 1998 dicevano ben altro i carabinieri davanti ai giudici di Firenze, parlando esplicitamente di trattativa”. Il PM ha riletto al Gup le parole dette davanti ai giudici della Corte d'Assise di Firenze, che si occupavano delle stragi del 1993, dal generale Mori: “Andammo da Ciancimino, ma insomma signor Ciancimino... ormai c’è muro contro muro… ma non si può parlare con questa gente? Lui dice si si potrebbe io sono in condizioni di poterlo fare. Certo io non potevo dire sig. Ciancimino mi faccia arrestare Riina e Provenzano. Gli dissi lei non si preoccupi, lui capì volevamo sviluppare questa trattativa”. Tartaglia commenta: “Oggi dicono che fu una raffinata operazione di polizia giudiziaria, con un obiettivo dichiarato, arrendetevi senza condizioni. Non fu così. Ancora più chiare sono le parole che l'allora capitano Giuseppe De Donno riferì nel corso dello stesso processo, era la prima occasione che i carabinieri ne parlavano dopo che il pentito Giovanni Brusca, appena pentito, aveva parlato per la prima volta dell'esistenza di una trattativa”. E difatti De Donno aggiunse ulteriori particolari: “proponemmo a Ciancimino di farsi tramite per nostro conto al fine di trovare un punto di incontro. Ciancimino accettò con delle condizioni a patto di rivelare i nostri nomi. Facemmo capire che questa non era una nostra iniziativa personale. Ci siamo incontrati e ci disse che l’interlocutore tra lui e Riina voleva una dimostrazione… concessione del passaporto per ulteriori trattative fuori dal territorio dello Stato. Al quarto incontro Ciancimino accettò la nostra richiesta di trattativa. Va bene accettano, vogliono sapere cosa volete. Mori ne aveva parlato solo con Subranni”.



SEGNALE DI DISTENSIONE

Teresi ricorda il fax mandato dalla Procura di Palermo per sancire il parere contrario alla possibile revoca del 41bis per 474 detenuti di prima grandezza (esponenti di Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita) proposta dal Dap. Di fatto il parere della Procura palermitana verrà totalmente disatteso. Il PM sottolinea che si tratta di “uomini d'onore, ma anche di capi mandamento che nella loro storia hanno abbracciato la causa corleonese stragista: Francesco Spadaro, Diego Di Trapani, Giuseppe Giuliano, Vito Vitale, Giuseppe Farinella, Antonio Geraci, Raffaele Spina, Giacomo Giuseppe Gambino, Giuseppe Fidanzati, Andrea Di Carlo, Giovanni Prestifilippo, Giuseppe Gaeta, Giovanni Adelfio ed altri”. “Il motivo di dare questo segnale di distensione ai mafiosi poi condannati per le stragi non si capisce”, ribadisce laconicamente Teresi. Che, infine, riprende quel noto dialogo tra l’ex esponente democristiano, Giuseppe Gargani, e Calogero Mannino “intercettato” casualmente dalla giornalista del Fatto Quotidiano, Sandra Amurri, il 21 dicembre del 2011. “Hai capito, questa volta ci fottono – aveva detto Mannino a Gargani nella ricostruzione della Amurri –, dobbiamo dare tutti la stessa versione. Spiegalo a De Mita, se lo sentono a Palermo è perché hanno capito. E, quando va, deve dire anche lui la stessa cosa, perché questa volta ci fottono. Quel cretino di Ciancimino figlio ha detto tante cazzate, ma su di noi ha detto la verità. Hai capito? Quello… il padre… di noi sapeva tutto, lo sai no? Questa volta, se non siamo uniti, ci incastrano. Hanno capito tutto. Dobbiamo stare uniti e dare tutti la stessa versione”.



DOCUMENTI SULLA TRATTATIVA

Nella sua lunga requisitoria Teresi riprende due documenti fondamentali per contestualizzare il grado di consapevolezza istituzionale del patto che si stava consumando tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato: la nota della Dia del 10 agosto ’93 e il rapporto dello Sco dell’11 settembre di quello stesso anno. In quelle carte, inviate ai gangli vitali degli apparati statali, per la prima volta compariva il termine “trattativa”. “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati – avevano scritto gli analisti della Dia -. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”. “Verosimilmente la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo”. Nel documento veniva specificato che “l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. Per gli uomini dello Sco Cosa Nostra stava seminando il terrore in tutta Italia per “cercare una sorta di trattativa con lo Stato sulle questioni che più affliggono Cosa Nostra: il carcerario e il pentitismo”. Le bombe di Firenze, Milano e Roma “non avrebbero dovuto realizzare stragi, ponendosi invece come tessere di un mosaico inteso a creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa nostra anche canali istituzionali”. Parole pesantissime, e soprattutto profetiche. Per Teresi le revoche di quei 41bis “sono inevitabilmente una deviazione del comportamento istituzionale da parte degli organi dello Stato”.


MANNINO E IL DAP

Nella prosecuzione della sua requisitoria Teresi ricorda che all’indomani della strage di via dei Georgofili Mannino rilascia al quotidiano La Stampa un’intervista “curiosa e strana” il cui titolo è tutto un programma: “Mannino: ma quali boss, il complotto viene dall'est. Riina non ne avrebbe le capacità”. Decisamente una posizione in antitesi con l’ipotesi della matrice mafiosa di cui si cominciò a discutere immediatamente. Per il procuratore aggiunto l’ex ministro democristiano è “perfettamente consapevole che, dopo la strage di Capaci, ha bisogno dell'interlocuzione con la mafia perché sa che è nel mirino della mafia. In questo momento iniziano i suoi incontri con Mori e Contrada come testimoniano le agende dell’uno e dell’altro. Lui (Mannino) conosce ed interferisce con il Dap per realizzare cosa è possibile dare ai mafiosi, per convincere alcuni settori istituzionali, per acconsentire alle richieste, le uniche che gli possono oggettivamente salvare la vita”. Ecco quindi che si arriva alle mancate proroghe di centinaia di 41bis così da dare “un segnale di distensione”. Nella documentazione citata dal PM si fa riferimento ad una prima riduzione del 10% dei decreti firmati da Martelli. Il tutto avviene meno di un mese dopo la strage di Firenze. Per Teresi si tratta di “un segnale di distensione immotivato, ma fortemente voluto dal Dap e da chi, fuori dal Dap, aveva assoluta necessità di far vedere a Cosa Nostra che stava adempiendo alle obbligazioni assunte”. Ma chi c’era fuori? “Mannino che telefona a Di Maggio” per chiedere di “non far applicare” e di “ritardare” alcuni 41 bis. Il PM ricorda che in quel momento ai vertici del Dap si parlava anche, in maniera riservata, di creare all’interno delle carceri delle “aree omogenee” da “destinare ai dissociati di mafia”.


IL “BARATTO” DI MORI

Poi arriva un affondo legato all’attualità. “L'altro giorno Mori – sottolinea ancora Teresi – intervistato ad una nota trasmissione tv, dopo essere stato convocato al Copasir, anziché andare in quella sede, ed evocando i fatti per la prima volta, usa una parola che è a dir poco scandalosa nella sua immoralità. Dice (Mori) che è stato sostanzialmente un ‘baratto’ (uno scambio di cose) ‘abbiamo dato un regime carcerario meno pesante’… si, e loro hanno dato i morti… Questo è un cinismo che fa paura. E’ questa la logica di quei commentatori che parlano di una trattativa ‘per evitare le stragi’. No! Tutto questo ha indotto le stragi. Da quel ‘baratto’ abbiamo avuto i morti!”.



D’AMBROSIO PARLA DI DI MAGGIO

Per unire i vari tasselli che ruotano attorno alla nomina di Di Maggio al Dap Teresi riprende la conversazione telefonica tra Nicola Mancino e l’ex consulente giuridico del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, Loris D'Ambrosio. L’intercettazione è quella del 25 novembre 2011 quando a Mancino il dott. D’Ambrosio dichiara: “Uno dei punti centrali di questa vicenda comincia a diventare la nomina di Di Maggio”, per sentirsi rispondere: “E certo, non aveva i titoli”, prima di replicare: “Ecco, e diventa dirigente generale attraverso un decreto del presidente della Repubblica no? Ora io ho assistito personalmente a questa vicenda (…) Io ricordo chiaramente il decreto scritto, il Dpr scritto nella stanza della Ferraro (Liliana Ferraro, all’epoca direttore degli affari penali del Ministero), il Dpr che lo faceva vice capo del Dap”. Di fatto si tratta della dimostrazione plastica della piena conoscenza di D’Ambrosio dell’irritualità della nomina di Di Maggio al Dap, inizialmente taciuta ai magistrati che lo avevano interrogato.



CRISTELLA

Il procuratore aggiunto specifica che Curioni e Fabbri ritenevano il 41 bis “troppo afflittivo per i detenuti” e sono proprio i due prelati a fare il nome di Adalberto Capriotti quale sostituto di Amato in quanto ritenuto un magistrato “buono e pio”. Capriotti diventerà da lì a poco il nuovo direttore del Dap, ma sarà il suo vice, Francesco Di Maggio, ad essere, dietro le quinte, il vero regista di patti e accordi sul terreno del 41bis. E proprio sul ruolo di Di Maggio e sul suo caposcorta Nicola Cristella il PM Teresi concentra successivamente la sua attenzione. Cristella aveva già dichiarato ai magistrati che lo stesso Di Maggio gli aveva parlato di Mannino. “Credo che (Mannino) facesse pressioni – aveva specificato – affinché tramite un giro di conoscenze si arrivasse a non rinnovare i 41bis”. L'ex capo scorta aveva anche riferito che Di Maggio frequentava assiduamente il generale dei Carabinieri Giampaolo Ganzer, il generale Mario Mori e l’ex colonnello del Sisde Bonaventura. “Il dato testimoniale – evidenzia Teresi – è il rapporto diretto tra Di maggio, Scalfaro, alcuni esponenti dei Servizi e il vice comandante del Ros (Mori) che aveva l’interlocuzione con Cosa Nostra”. E proprio in merito al 41 bis “per far capire a Cosa Nostra che si può concedere subito si può provare a far deviare i comportamenti istituzionali”.



IL RUOLO DELLA CHIESA

Secondo la ricostruzione del PM il 41 bis “potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. “Per capire cosa accade nel 1993 – spiega Teresi – bisogna capire la rivoluzione copernicana al ministero della giustizia accompagnata dalla sostituzione al Dap dove il problema carcerario era una risposta”. Il Dap “doveva essere controllato da personaggi che fossero disposti a consentire la realizzazione di talune richieste di Cosa Nostra”, soprattutto in merito all’“attenuazione del 41 bis”. Torna quindi sotto i riflettori la questione dei messaggi della “falange armata” contro il 41bis. Teresi ricorda che l’allora capo del Dap Nicolò Amato è “meno in sintonia” con il neo Guardasigilli Conso precisamente in tema di carcere duro. “Conso non tiene in nessun conto” le indicazioni di Amato sull’effettivo potenziamento del regime del 41bis fino all’improvvisa sostituzione dello stesso Amato su suggerimento dell’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Una “anomalia tutta italiana”, sottolinea Teresi che riprende le dichiarazioni del pentito Ciro Vara secondo il quale la trattativa sarebbe andata a buon punto “perché è intervenuta la Chiesa”. Il riferimento è all’ex ispettore generale dei cappellani delle carceri Cesare Curioni e del suo fedele vice Fabio Fabbri chiamati appositamente da Scalfaro per farsi consigliare sul sostituto di Amato al Dap.



UCCISIONI AGENTI E SEGNALE DI DISTENSIONE

Teresi ripercorre il periodo tra la strage di via d’Amelio e i primi mesi del ’93. Dopo l’apertura delle supercarceri di Pianosa e l’Asinara di fatto Cosa Nostra “cerca di allentare questa pressione”. Le richieste del “papello” di Riina sono palesemente esorbitanti ed è sempre la questione dell’alleggerimento del 41 bis il chiodo fisso per i boss “l'unico segnale che si può dare” all’interno di questo patto tra Stato e mafia. Nella requisitoria c’è spazio anche per l’omicidio del sovraintendente Pasquale Campanello in servizio al carcere di Poggio Reale nella sezione 41bis “un omicidio simbolico”, così come quello dell’agente penitenziario Michele Gaglione nel carcere di Secondigliano. L’omicidio Campanello aveva di fatto ammorbidito l'atteggiamento di agenti e ministri nei confronti della Camorra. Dopo la morte di Campanello, l’allora capo del Dap Nicolò Amato si era recato a Poggioreale e aveva scritto una sorta di rapporto a Martelli. La linea di Amato sarebbe stata quella del pugno duro, con il taglio dei colloqui, delle telefonate, dei pacchi e dell'ora d'aria per i detenuti in regime di 41-bis. Dal canto suo il 9 febbraio del ’93 l’ex ministro della giustizia aveva emesso immediatamente un decreto, ma tre giorni dopo si era dimesso ed era stato sostituito da Giovanni Conso. Il 20 febbraio, il questore di Napoli Umberto Improta, aveva inviato un fax al ministero di Grazia e giustizia, dove proponeva di ammorbidire le misure carcerarie contro i boss. La richiesta era stata immediatamente accolta da Conso, ad esclusione dei reparti Torino e Venezia di Poggioreale, e per il T1 e il T2 di Secondigliano. “Un primo segno di cedimento”, sottolinea Teresi che, per rafforzare le sue tesi riprende le relazioni della Dia a firma di De Gennaro nelle quali di fatto veniva paventato il rischio di una “tacita trattativa” a suon di bombe sull’altare del 41bis.



STRAGI E CAMBIAMENTO INTERLOCUTORE: DA RIINA A PROVENZANO

Teresi parla dei primissimi giorni del 1993 nei quali avvengono una serie di eventi “dai quali non si riesce a dare una spiegazione logica se non si mettono in relazione a quanto avveniva nel medesimo periodo con il dialogo segreto avviato nel 1992 da Mori e De Donno con Cosa Nostra”. Il procuratore aggiunto specifica che gli stessi ex ufficiali del Ros “su mandato di qualcuno”, evidentemente riconducibile allo stesso Mannino, cercano quell’interlocuzione. E la “moneta di scambio” tra Stato e mafia “è proprio la morte… sono proprio le stragi” in quanto, partendo con il mancato attentato a Costanzo in via Fauro, per finire con la strage di Milano di via Palestro, rappresentano una vera e propria “accelerazione”, un “aumento della posta” che Cosa Nostra si sente autorizzata a chiedere allo Stato qualora non venissero accolte tutte le richieste. Teresi spiega inoltre che il piano di morte inizia con l’omicidio di Salvo Lima, poi la strage di Capaci e poi prosegue con i progetti omicidiari di alcuni esponenti politici, primo tra tutti Calogero Mannino. Ecco allora che dopo la strage di via D’Amelio “Mannino cambia interlocutore, non più Riina, ma Provenzano che era più vicino a Ciancimino



INTERVISTE DI MANCINO E CATTURA RIINA

A mo’ di conferma dell’ambiguità di quel periodo vengono citate le interviste dell’ex ministro degli Interni Nicola Mancino del 12 gennaio ’93 nella quale veniva anticipata la cattura di Riina e di quella del 12 dicembre ’92 dove si parlava di una spaccatura all’interno di Cosa Nostra tra due diverse anime di “stragisti” e “moderati”: un dato assolutamente sconosciuto a livello pubblico. “Nessuno a livello di servizi e polizia giudiziaria sapeva che da li a due giorni sarebbe stato catturato”. Teresi rimarca la possibilità che Mancino avesse avuto quelle informazioni da quegli ufficiali dei Carabinieri che avevano l’interlocuzione diretta con Cosa Nostra con un obiettivo: catturare Riina tramite Provenzano. Una trattativa insomma che “si instrada in quella direzione”. Secondo il magistrato la versione ufficiale sulla cattura di Riina fornita dal Ros è “piena di falle, di buche e di falsità” in quanto “per eliminare Riina dalla interlocuzione fondamentale e proseguire solo con Provenzano si doveva catturare Riina mettendolo fuori dal gioco. Ecco perché probabilmente anche qui abbiamo una trattativa”. “Chi procede nella cattura Riina – sottolinea Teresi – non può impossessarsi delle sue carte perché quelle carte sono ‘dirompenti’ per l'esistenza stessa dell'organizzazione e di fatti non sono mai state trovate in 20 giorni di mancata perquisizione del covo”.




CONCLUSIONE

“Mannino si inserisce come ispiratore di atteggiamento nella violenza e minaccia di Cosa nostra per deviare le attività nei pubblici poteri. Riteniamo di aver provato con la lettura di atti complessi di questo processo e sono certo che non ci sono dubbi sulla piena e comprovata colpevolezza dell'imputato per cui chiediamo che venga affermata una condanna di anni 13 e mesi 6 di reclusione che ridotta diventa anni 9 di reclusione e pene accessorie previste dalla legge”. Così il procuratore aggiunto Vittorio Teresi ha concluso la propria requisitoria davanti al gup Marina Petruzzella al processo contro l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, imputato con il rito abbreviato per la Trattativa Stato mafia. Mannino è imputato del reato disciplinato dagli articoli 338 e 339 del codice penale, ovvero violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato. “Quando Mannino disse a Gargani 'la Procura di Palermo ha capito tutto' diceva il vero – ha aggiunto Teresi - Si è riusciti a trasformare quel che si era capito in prove giudiziarie. Le sue parole, 'ora ci fottono', 'Ciancimino ha detto la verità su di noi' vanno direttamente collegate al ruolo avuto dal Mannino dopo la morte di Lima, dopo le stragi, il suo rapporto con Mori, il suo sollecitare la non applicazione del 41 bis. E' lui l'istigatore principale di quel contatto tra Mori e De Donno e Cosa Nostra affinché non lo si ammazzi. E non voglio dire che questo è l'unico fine della trattativa ma sicuramente è l'unico fine di Mannino che si adopera anche con altri esponenti istituzionali per scegliere la via de


 
 
 

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