Quel maxiprocesso
- saradonatelli0920
- 10 ago 2015
- Tempo di lettura: 8 min

Cosa Nostra mette in atto un piano di “ricatto allo Stato” per indurre le istituzioni a concessioni sia dal punto di vista penitenziario che penale. La realizzazione di questo piano inizia con l’uccisione di Salvo Lima e prosegue con le stragi del 1992 e 1993 fino al fallito attentato allo stadio Olimpico del 1994. Le condotte di pubblici ufficiali ed esponenti politici che instaurano un dialogo non autorizzato dalle leggi dello Stato genera negli associati mafiosi la convinzione che gli attentati eclatanti pagano. Ma procediamo gradualmente.
1. L’IMPORTANZA DEL MAXIPROCESSO
Il maxiprocesso a Cosa Nostra durò dal 10 febbraio 1986 (giorno di inizio del processo di primo grado) al 30 gennaio 1992 (giorno della sentenza finale della Corte di Cassazione). Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta a Palermo imperversava la seconda guerra di mafia e per far fronte ad una simile situazione, il primo a pensare che presso l’ufficio istruzione del tribunale di Palermo potesse essere istituita una squadra di giudici istruttori, che avrebbero lavorato in gruppo, fu il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Quando poi nel 1983 Cosa Nostra uccise anche Chinnici, il giudice chiamato a sostituirlo, Antonino Caponnetto, decise di mantenere ed ampliare l’organizzazione dell’ufficio voluta dal predecessore. Caponnetto decise di istituire presso l’ufficio istruzione un vero pool antimafia, ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso. Lavorando in gruppo, essi avrebbero avuto una visione più chiara e completa del fenomeno mafioso nel palermitano, e di conseguenza la possibilità di combatterlo più efficacemente. Caponnetto scelse, tra i giudici istruttori che meglio conosceva e dei quali riteneva di potersi fidare, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Questi avrebbero svolto tutte le indagini su Cosa Nostra. Nell’ottobre del 1983 in Brasile venne arrestato il mafioso Tommaso Buscetta e quando il 15 luglio 1984 fu estradato in Italia, cominciò a raccontare a Falcone le sue vaste conoscenze su Cosa Nostra. Le rivelazioni di Tommaso Buscetta si possono fondamentalmente suddividere in due categorie: l’organizzazione interna ed il funzionamento di Cosa Nostra ed i mandanti e gli esecutori materiali di numerosi delitti di mafia. Solo su un argomento Buscetta affermò di non voler dire nulla: quello dei rapporti tra mafia e politica. A questo proposito, Buscetta spiegò che secondo lui i tempi non erano ancora maturi. Concluse le indagini preliminari, l’8 novembre 1985 il giudice Caponnetto poté emanare l’ordinanza-sentenza riguardante il maxiprocesso, intitolata "Abbate Giovanni + 706". Era lunga circa 8.000 pagine e valutava la posizione di 707 indagati; di essi, 476 furono rinviati a giudizio (numero poi sceso a 475 perché il mafioso Nino Salvo, già gravemente malato, venne a mancare), gli altri 231 vennero prosciolti. Fu subito chiaro che nessuna aula di tribunale a Palermo, e forse nel mondo, avrebbe potuto contenere un simile processo, così venne costruita in pochi mesi, a fianco del carcere dell'Ucciardone, una grande aula subito soprannominata aula bunker. A rappresentare l’accusa al maxiprocesso vennero nominati due pubblici ministeri: Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, che si sarebbero alternati in aula. Per quanto riguarda invece la composizione della Corte d'assise che avrebbe giudicato (un presidente, un secondo giudice togato denominato giudice a latere e sei giudici popolari), si pose subito un inatteso problema: nessun presidente di Corte d’assise sembrava infatti disposto a presiedere il maxiprocesso. Ben dieci di essi riuscirono in qualche modo a defilarsi. Alla fine l’incarico venne accettato da Alfonso Giordano. Come giudice a latere venne nominato Pietro Grasso, e si procedette senza difficoltà anche alla nomina dei sei giudici popolari. Data l’eventualità che qualcuno dei membri della Corte potesse trovarsi in condizione di non poter proseguire il processo, furono nominati due ulteriori giudici togati (Dell’Acqua e Prestipino) che potessero eventualmente sostituire i giudici Giordano e Grasso, nonché altri venti giudici popolari in eventuale sostituzione dei sei della Corte. Il 10 febbraio 1986, in un’aula bunker gremita di circa 300 imputati, 200 avvocati difensori e 600 giornalisti da tutto il mondo, si aprì il processo. Tra gli imputati presenti vi erano Luciano Leggio, Pippo Calò, Michele Greco, Leoluca Bagarella, Salvatore Montalto e moltissimi altri; tra i contumaci figuravano Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Le accuse ascritte agli imputati includevano, tra gli altri, 120 omicidi, traffico di droga, rapine, estorsione, e, ovviamente, il delitto di "associazione mafiosa" in vigore da pochi anni. Dal momento che i termini di custodia cautelare per un centinaio di imputati scadevano l’8 novembre 1987 (poi prorogati di poche settimane), era necessario che il processo di primo grado si concludesse entro quella data. Per questo motivo il presidente Giordano dispose che il processo si sarebbe celebrato tutti i giorni, ad eccezione soltanto delle domeniche e di alcuni sabati. Uno dei momenti più intensi del processo fu il confronto diretto tra l’accusatore Buscetta e l’imputato Pippo Calò. L'11 novembre 1987, dopo 349 udienze, gli otto membri della Corte d’assise si ritirarono in camera di consiglio. Tale Corte era composta dai due giudici togati Alfonso Giordano e Pietro Grasso, ed i sei giudici popolari Francesca Agnello, Maria Nunzia Catanese, Luigi Mancuso, Lidia Mangione, Renato Mazzeo e Francesca Vitale. Fu la più lunga camera di consiglio che la storia giudiziaria ricordi: 35 giorni, durante i quali la Corte visse totalmente isolata dal mondo, lavorando a tempo pieno sul maxiprocesso. Infine, il 16 dicembre 1987 il presidente Giordano lesse la sentenza che concludeva il maxiprocesso di primo grado: 346 condannati e 114 assolti; 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. La sentenza venne unanimemente considerata un duro colpo a Cosa Nostra. Contrariamente a quanto era avvenuto per il processo di primo grado, in appello si trovò subito un sia pur ristretto numero di magistrati disposti a presiedere il maxiprocesso. Uno di questi era Antonino Saetta, un magistrato che si era messo in luce negli ultimi anni per il coraggio e l’assoluto rigore morale. Il 25 settembre 1988 Cosa Nostra uccise il giudice Saetta a colpi di pistola, ed uno dei motivi era proprio quello di impedirgli di presiedere il maxiprocesso. L’incarico di presidente venne infine accettato dal giudice Vincenzo Palmegiano ed il processo d’appello poté aprirsi il 22 febbraio 1989. Ebbe durata appena inferiore al primo grado, ed il 12 novembre 1990 la Corte d'assise d'appello poté ritirarsi in camera di consiglio. La sentenza, pronunciata dal presidente Palmegiano il 10 dicembre 1990 si rivelò deludente per gli inquirenti e per la maggior parte dei mezzi di comunicazione, tanto che non mancarono le polemiche. Le condanne venivano infatti ridotte in maniera cospicua: gli ergastoli passarono da 19 a 12, le pene detentive vennero ridotte di oltre un terzo, scendendo a 1576 anni di reclusione, e vennero pronunciate 86 nuove assoluzioni. L’ultimo passaggio da superare era quello del vaglio, da parte della Corte di Cassazione, sulla regolarità del processo. Anche per la stessa mafia il giudizio di Cassazione era in effetti l’ultima possibilità per una ulteriore riduzione o annullamento delle condanne, mentre per l’accusa essa rappresentava la possibilità di ricorrere contro le assoluzioni ottenute in secondo grado. Il rischio, assai temuto da Giovanni Falcone, era che il maxiprocesso venisse affidato alla prima sezione della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, giudice cui venivano di solito attribuiti i processi di mafia e che, per la gran quantità di condanne annullate, quasi sempre per piccoli vizi di forma, era stato soprannominato "ammazzasentenze". Giovanni Falcone aveva promosso una sorta di "monitoraggio" delle sentenze della Cassazione. Il risultato fu che, per evitare polemiche, il primo presidente della Cassazione decise che i processi di mafia sarebbero stati attribuiti a tutti i presidenti di sezione, a rotazione. Di conseguenza il maxiprocesso fu attribuito alla Corte presieduta dal giudice Arnaldo Valente. La sentenza, emessa il 30 gennaio 1992, fu molto severa: le condanne furono tutte confermate, mentre la gran parte delle assoluzioni pronunciate nel giudizio d'appello venne annullata e per gli imputati venne disposto un nuovo giudizio. Il processo di rinvio venne celebrato tra il 1993 e il 1995 davanti alla Corte presieduta da Rosario Gino: tutti gli imputati vennero condannati all’ergastolo. Il risultato finale del maxiprocesso fu dunque che la quasi totalità delle pesanti condanne pronunciate in primo grado venne confermata e divenne definitiva: un colpo molto duro per Cosa Nostra.
2. PERCHE’ LA MAFIA E’ IN CRISI?
La mafia in quel periodo viveva sicuramente un momento molto complicato: l’arresto di numerosissimi uomini d’onore e le prime collaborazioni con la giustizia (Buscetta, Contorno) causarono una profonda ferita alla legge dell’omertà interna. Da non dimenticare inoltre che il rinvio a giudizio prima e la condanna poi di tantissimi mafiosi, alla fine di un processo di grande valore politico-simbolico, misero in crisi il mito dell’impunità dei mafiosi. Il risultato del maxiprocesso (dannoso per Cosa Nostra) aprì una profonda crisi nei rapporti tra l’organizzazione mafiosa ed i referenti politici tradizionali, che agli occhi dei capimafia avevano fallito su uno dei terreni più importanti per i quali la mafia a loro si rivolgeva: la garanzia dell’impunità. Ecco allora che Cosa Nostra mutò atteggiamento ed elaborò una nuova politica di “alleanze”, tendente a rinnovarle e a verificare la praticabilità di altri “canali” verso i quali indirizzare la propria capacità di orientare i consensi elettorali. I capi di Cosa Nostra pensarono di poter realizzare un qualsiasi progetto di “rinnovo” con il mondo politico solo attraverso la violenza. Per anni, infatti, la mafia aveva trovato i propri referenti politici soprattutto tra le file della DC. Punti di riferimento fermi, stabili, ai quali chiedere e concedere favori, un do ut des che da anni aveva funzionato alla perfezione. Da quando però si viene a costituire il pool antimafia, da subito si avverte un cambiamento radicale. Per la prima volta abbiamo magistrati che fanno sul serio, che attraverso le indagini e il prezioso contributo dei primi collaboratori di giustizia riescono a scoprire e ricostruire dinamiche interne a Cosa Nostra, da sempre nascoste, segrete e protette da quei referenti politici di cui parlavamo prima. I magistrati del pool fanno sul serio ed il risultato concreto di questo lavoro fu il maxiprocesso. La mafia non vuole essere processata, né tanto meno condannata. Ma questo avvenne. Avvenne grazie alla dedizione dei magistrati che istituirono il processo, avvenne grazie a Giovanni Falcone che fece di tutto affinché il maxiprocesso non finisse nelle mani dell’Ammazzasentenze Carnevale. Cosa Nostra, con la condanna definitiva in Cassazione subisce dunque un colpo durissimo: fine dell’impunità, attraverso la violazione della regola numero uno di ogni organizzazione mafiosa: il silenzio. Pentiti che parlano, magistrati che indagano, condanne che si concretizzano. E quei referenti politici che fanno? Dove sono? Perché voltano le spalle agli “amici” proprio nel momento di maggior bisogno?
3. NUOVA STRATEGIA
Ad oggi riusciamo a trovare le risposte a queste domande. Innanzitutto Cosa Nostra, in previsione della sentenza in Cassazione, inizia ad organizzarsi. Nel dicembre 1991 si tiene una riunione ad Enna in cui Riina traccia le linee guida di un piano di destabilizzazione della vita del paese. In relazione a tale avvenimento vanno evidenziate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Leonardo Messina, Giuseppe Pulvirenti e Filippo Malvagna (quest’ultimo parla degli obiettivi concordati e delle modalità di realizzazione degli attentati: la rivendicazione degli attentati doveva essere con la sigla della “Falange Armata”). Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè, Leonardo Messina, Ciro Vara e Angelo Siino parlano dell’importanza per Cosa Nostra di costruire nuove alleanze con esponenti del mondo politico (per ottenere trattamenti di favore sul piano della giustizia penale e del trattamento penitenziario) ed economico (per l’allargamento del giro di affari per le imprese di riferimento). Dopo la sentenza in Cassazione del maxi-processo Cosa Nostra vuole dunque aprire una nuova stagione per chiudere i conti con una serie soggetti ritenuti responsabili del “fallimento” del maxiprocesso ed incidere sul quadro politico italiano.
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